01/06/2025 21:46:42

Il turismo culturale secondo Ceschin

Federico Massimo Ceschin è uno dei manager turistici più importanti e influenti degli ultimi anni, ha origini venete ma conosce la Puglia e la Capitanata molto meglio di tanti residenti, tanto da averci anche vissuto.
Ha esperienza di almeno 30 anni, anche internazionale, nel settore della valorizzazione dei beni culturali e ambientali, e quindi sa benissimo come vanno le cose di questi tempi.
Un paio di mesi fa il quotidiano l’Attacco gli ha fatto alcune domande, cercando di capire quali siano gli scenari riguardanti la provincia di Foggia in generale, e anche il territorio di Lucera e Monti dauni, pure in relazione allo status di quest’anno di Capitale regionale della Cultura. 
La riproponiamo integralmente.

Ceschin, com’è possibile che alcuni territori crescono, seppur in un moderato silenzio mediatico, e altri vantano titoli e acclamazioni e poi registrano dati di afflusso in flessione?
Bisogna parte da un discorso generale, e cioè prendere consapevolezza (e non è affatto scontato) che stiamo assistendo a un enorme cambiamento di paradigma, con una domanda dei mercati decisamente diversa. Lo si era intravisto già prima della pandemia Covid che poi ha accelerato questo processo in cui la domanda che gli operatori a tutti i livelli, politici e imprenditoriali, dovrebbero farsi è: qual è l’esperienza che offro? La Daunia e il Gargano cosa mettono a disposizione non solo come luogo fisico ma come attrattiva reale di coinvolgimento? Bisogna capire che i titoli non bastano più, né balneari né legati ai borghi, che pure sono importanti, ma se non viene realizzata una proposta, una storia allettante da vivere, la risposta che rischia di arrivare è una replica piuttosto inquietante: "Cosa vengo a fare?" È la domanda che governa i flussi, e non l’offerta.

E quindi il mare bellissimo, il luoghi di arte o il paesaggio che la Puglia e la Capitanata possono vantare?
Vanno benissimo ma ormai sono solo la base su cui costruire un’altezza, perché bisogna rendersi conto che è cambiato sia il modo di viaggiare che il modo di considerare il turismo. In tanti posti il turista viene odiato perché troppo invasivo, e da almeno un secolo a questa parte viene più che altro considerato un numero. Solo così si spiega il fenomeno dell’overtourism. Non va più bene quello che mi ha detto un assessore poco tempo fa: “Basta che viene gente”. Bisogna andare incontro ai visitatori e non più contare i turisti, perché arriveranno solo se vengono mostrate occasioni di svago e intrattenimento che riescono ad elevare il loro livello di crescita personale e nelle relazioni. Chi viene, vuole partecipare attivamente, imparare a fare qualcosa anche materialmente, con le sue mani. Noi lavoriamo con le Destination Management Organization (tema ancora fin troppo dibattuto in Puglia ma senza una sua vera concretizzazione, ndr) che si fondano su tre criteri: accessibilità, fruibilità e coinvolgimento. Arrivare davanti a uno scorcio bellissimo, farsi il selfie e andare via non è turismo, è assalto predatorio che non porta né pernottamento, tanto meno spesa.

Come sta messa l’Italia in questo momento storico?
Se l’Italia continua a basare la sua competitività su spiagge e città d’arte (che sono attrattori di massa e piuttosto stagionali) non avrà molto futuro e in realtà nemmeno tanto presente. E’ stato calcolato che nel 2040 il nostro Paese, che ora è quinto nel mondo, verrà superato da Turchia e Messico. Basta vedere quali spot video hanno realizzato i turchi: non mostrano tanto i luoghi quanto raccontano le esperienze che si possono fare sul posto. Qui invece continua l’ostinazione di voler proporre un turismo che poi diventa “minore”. L’Egitto è cresciuto di oltre il 200% e sempre più gente va in vacanza in Albania. Noi alla Borsa del Turismo portiamo le brochure cartacee, i taralli e il vino, i passanti mangiano, bevono e poi vanno in vacanza altrove. Si punta punta sui grandi eventi (il Giubileo, Olimpiadi o Mondiali sportivi) e così si mette in moto la macchina economica dell’edilizia e della forniture, ma nei grandi eventi non c’è cultura, e quindi poi pensiamo di ritrovarla nella Pro Loco che fa la sagra. Posso citare un esempio a cui ho preso parte in prima persona quando lavoravo nel Regno Unito. Liverpool venne designata Capitale europea della Cultura e ottenne 60 milioni di euro dall’Unione di cui faceva ancora parte. A livello locale decisero di raddoppiare la somma, coinvolgendo anche le vicine Manchester e Sheffield, creando così uno straordinario triangolo post industriale che è diventato un polo di attrazione di varia natura, ancora oggi dopo tanti anni capace di generare milioni di turisti di tutte le età. Oggi quello è un luogo delle meraviglie con un’offerta che riesce a soddisfare tutti. 

E allora veniamo alle nostre latitudini dove i dati sono in flessione (Lucera e Monte Sant’Angelo in particolare), nonostante la centralità almeno teorica del discorso culturale. 
Certi divari sono ancora più profondi nei territori maggiormente fragili e meno connessi. Bene le capitali regionali. E quindi? Gli slogan, i titoli, le etichette non bastano più, né tanto meno il progetto si può ridurre a una lista di eventi. Se vengo a Lucera e non trovo l’anfiteatro aperto e fruibile, o vado al castello e non trovo figuranti in abiti medievali che mi spiegano il monumento, cosa ci vengo a fare? Per quanto mi riguarda, le associazioni di rievocazioni storiche andrebbero sostenute per far svolgere loro attività quotidiane. Non può essere tutto convegni e concerti, o almeno questo ha senso in una località come Vieste che ha un flusso balneare potente e quindi ha il dovere di creare anche altro. Ma chi deve creare la destinazione partendo quasi da zero, deve avere un approccio diverso, cominciando soprattutto dalla logistica: parcheggi a ridosso dei centri storici, mappe per raggiungerli, profumi da inseguire, tracce di percorsi per i luoghi di interesse. Questo significa andare incontro a chi arriva, e non aspettarlo senza fare nulla. Insomma, più sostanza e meno fuffa, anche perché così si affida il destino dei giovani all’attesa vana o ad aprire gli ombrelloni sulle spiagge. 

Dopo l’avvio delle attività a Lucera Capitale 2026, è iniziato anche un ancora timido dibattito sul ruolo che avrebbero dovuto e potuto svolgere i 29 Comuni dei Monti dauni nell’ambito della candidatura.
Lucera non ha eguali di bellezza per un raggio di centinaia di chilometri di distanza, dovrebbe essere la vera capitale di un ampio territorio, ma qualcuno ci deve credere, cioè la politica, le imprese e i cittadini. La Regione deve fare investimenti reali a lungo termine e non più solo limitarsi a mandare spettacoli quasi come una forma di cortesia. A Lucera c’è una materia prima straordinaria ma è il simbolo, assieme a tante altre località, dell’Italia che non funziona dal punto di vista turistico. Ora peraltro ha molti meno problemi in tema di trasporti, perché si può raggiungerla in treno e l’aeroporto è aperto è poco distante. I Monti dauni devono capire che senza Lucera non vanno da nessuna parte, e viceversa. I borghi più piccoli in questo anno avrebbero dovuto riversarsi nella “Capitale”, animandola portando i propri patrimoni immateriali, mentre così credo di aver capito che si sono create delle false aspettative. E di casi del genere ce ne sono a decine, spesso derivanti proprio dalle candidature al contest nazionale che mettono insieme territori vastissimi che sono poi dispersivi in termini di attività. Per partecipare a questi concorsi, ci devono essere le giuste condizioni anche sui ruoli da svolgere. La domanda che bisogna porsi non è cosa potrò avere ma cosa potrò dare. Quando ho lavorato sui Monti dauni ho dovuto spiegare più volte che i fondi ottenuti sarebbero serviti con sostenere il brand della Via Francigena e non distribuirli ai singoli Comuni per fare la sagra di paese. Quando i sindaci hanno capito definitivamente questa posizione, non si sono presentati più.

Riccardo Zingaro

(Luceraweb – Riproduzione riservata)

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